Sangue, Carne, Ossa, Terra

AVVERTENZE:

Dopo il rientro dalla vaccinazione di Sakania sono rimasto a Kinshasa per un paio di settimane; in quel periodo sono stato poco bene, come molti di voi già sanno e non ho scritto alcun articolo. Nel frattempo abbiamo ricevuto notizie sull’aggravarsi delle espulsioni dei congolesi dall’Angola verso il Kasai Occidentale, cosi’ abbiamo organizzato una missione di valutazione per osservare la situazione di persona.

Lungo la strada abbiamo prestato soccorso ai feriti di un incidente e questo è il racconto di quella giornata. E’ un racconto un po’ crudo e le foto lo sono ancora di più. Sconsiglio alle persone sensibili, o impressionabili o come caspita si dice, di guardare le immagini, che ho posizionato volutamente in fondo alla pagina e non tra le righe del testo, come invece faccio di solito. Per favore, non sottovalutate questo avvertimento.

 

La prima parte del viaggio per il Kasai Occidentale, fino a Kikwit, doveva essere la migliore. Strada asfaltata (miracolo cinese)e paesaggio magnifico, composto da una costellazione di colline con decine di tonalità di verde e temperatura ottimale grazie alla pioggia della notte. Per un istante mi concedo anche il lusso di sonnecchiare, coccolato dall’aria sul viso.

Ma all’improvviso la voce di Mbaki mi sveglia. In lontananza si intravvede un camion rovesciato e diverse persone sulla strada. Li per li non mi preoccupo molto ; anche mentre andavo verso Muhanga ho incrociato la stessa situazione ma non c’era alcuna vittima, nè feriti ; l’unica cosa che penso è « a quanto pare è un fenomeno ricorrente » . Una volta raggiunto il punto dell’incidente, pero’, mi rendo conto che devo smetterla di paragonare ogni situazione con quello che ho vissuto a Muhanga…

La prima immagine che il mio cervello registra è quella di un uomo a terra, coperto di terra e polvere, rannicchiato in posizione fetale, con il cranio sfondato e materia cerebrale sparsa tutto intorno. Quando alzo lo sguardo, davanti ai miei occhi c’è una catastrofe. Corpi sui bordi della strada, sangue dovunque, gente che grida e piange, bambini seduti accanto ai corpi delle madri morte, altri morti insieme alle madri, sguardi persi nel vuoto, sia quelli delle vittime che quelli dei superstiti.

Fermiamo la jeep e, via radio, avvertiamo immediatamente la base, che ci autorizza a prestare immediato soccorso ; quindi ci avviciniamo alla folla ed effettuiamo una valutazione rapida della situazione. A prima vista la stima delle persone coinvolte é di una settantina ; il camion proveniva da Kinshasa, come noi, ed era diretto a Kikwit, come noi. Il cassone era colmo di merce e sulla merce , ammassate, c’erano circa un centinaio di persone. L’autista conduceva ad alta velocità quando ha perso il controllo e la gente è stata proiettata dovunque.

Ci dicono che il primo ospedale è a 7 chilometri dal punto dell’incidente, per cui insieme a Joel scarichiamo velocemente una delle macchine per trasportare il maggior numero possibile di feriti. Quando facciamo spostare la folla lo spettacolo è macabro. La gente sta cercando di ammassare i sopravvissuti in un’unica zona, per cui sono tutti gettati nella terra, grandi e piccoli, gravi e meno gravi. La maggioranza ha delle fratture esposte degli arti, amputazioni, traumatismi, escoriazioni e fratture non esposte.

A questo punto guardo Joel e pronuncio la frase che prima o poi, in questo tipo di lavoro, ero certo che sarei stato costretto a dire ad alta voce: “prendete solo i salvabili”.

Facciamo un rapido triage, mentre la folla cerca di sollevare i propri cari per esser certi che li caricheremo sulla vettura. Dopo qualche minuto l’auto è piena di gente ammassata come sacchi di patate, col sangue che cola verso il portellone posteriore fuoriuscendo dalle fratture e dalle varie ferite. Il mio sguardo si posa su un bambino ancora nella terra. La gamba destra è quasi del tutto amputata, ma amputata non è nemmeno il termine esatto perchè non c’è un taglio netto; più che altro è strappata, con un’esile striscia di pelle che la tiene ancora vagamente collegata al corpo; quella sinistra ha una frattura di tibia esposta, ed anche il polso sinistro è fratturato. Il cranio è per metà scoperchiato in una lesione che parte dall’occhio destro e si allunga fin dietro la testa. La pelle penzola, arrotolata come la carta di una pergamena. Accanto a lui c’è la madre, anche lei in condizioni estreme e altrettanto coperta di terra e sangue. Respirano entrambi, anche se il movimento del torace è tutt’altro che ritmico. Il marito si avvicina piangendo e mi supplica di prendere almeno uno dei due, di non lasciarli morire entrambi. Guardo il bambino, guardo la jeep piena, poi guardo Cécile che dice soltanto « il va mourir »; per la madre non c’è posto, come per nessun altro adulto, ma un angolino per il bambino lo possiamo trovare ; cosi con Joel lo raccogliamo da terra e lo adagiamo con gli altri.

Poi ci arrampichiamo nella parte posteriore della camionetta, in bilico sul gradino più esterno e aggrappati alle assi del tetto, e Mbaki parte a tutta velocità. Abbandoniamo la strada asfaltata dopo poche centinaia di metri e mantenere l’equilibrio diventa difficilissimo, tanto piu’ che il portellone posteriore mi sbatte tra le costole ad ogni fossa, curva o dosso. Il bambino che abbiamo caricato per ultimo è proprio sotto i miei occhi e distogliere lo sguardo è impossibile. L’unico aspetto che mi rassicura è sentirlo piangere; vuol dire che ha ancora un po’ di energia, ma la sicurezza viene meno abbastanza in fretta perchè il piccolo smette di farlo un istante dopo. Controllo che sollevi il torace mentre mi ripeto freneticamente “non morire, non morire, non morire” come se fosse una filastrocca, ma per lunghi istanti il torace rimane immobile. Quando inizio a rassegnarmi pero’, lui dà un colpo di tosse e ricomincia a piangere. Ma la cosa non mi fa sentire meglio, perchè nel guardare le sue condizioni è evidente che, anche se dovesse sopravvivere, rimarrà per sempre storpio e sfigurato e non so se davvero dentro di se ringrazierà mai di essersi salvato.

Appena entriamo nel piazzale dell’ospedale Joel ed io ci lanciamo giù dalla macchina e, mentre Mbaki fa manovra, cerchiamo di far spostare la folla che già si è ammassata. Quando entriamo nella stanza principale dell’ospedale le speranze si affievoliscono ancor più, allorchè constatiamo che non ci sono letti, non c’è materiale e regna il caos. Parliamo velocemente con il direttore dicendogli che metteremo i feriti per terra perchè dobbiamo assolutamente tornare a prendere gli altri, lui ci fa un breve, anzi brevissimo, elenco del materiale di cui dispongono e poi torniamo alla macchina con una brandina. Joel sale sul retro e prende una donna sotto le braccia, poi mi fa segno di dargli una mano. Istintivamente dirigo le mani verso i piedi della donna, ma un attimo prima di afferrarli mi rendo conto che entrambe le caviglie sono spezzate, la pelle è totalmente maciullata, le ossa appuntite sporgono dalle ferite e i piedi sono piegati in posizioni decisamente innaturali. « Ok » penso, « meglio se afferro un po’ più su ». Questo è l’unico pensiero che mi impongo; totalmente stupido ed evidente, ma ho bisogno di rimanere con la testa sul posto, lucido, perchè nell’aria c’è un senso di disperazione generale che rischia di schiacciarmi.

Afferro le gambe e trasciniamo la donna sulla brandina ; « alla faccia di collari e barelle spinali » è il secondo pensiero ridicolo che la mia mente partorisce. Non ho tempo di pensare che la carne che sto trasportando è un essere umano in condizioni gravissime; cerco di fuggire dalla visione generale della situazione, concentrandomi sull’atto immediato che sto eseguendo. E’ l’unica soluzione che trovo per rimanere esteriormente calmo. Continuiamo a trasportare i feriti e ad adagiarli sul pavimento dell’ospedale, che in breve tempo diventa un lago di sangue; poggiamo in un angolino il corpo di una bambina morta durante il tragitto, mentre la gente intorno a noi piange e intona canti di cordoglio.

Una volta finito, la jeep sembra un essere vivente con una ferita atroce, che perde fiumi di sangue dal portellone posteriore.

Joel fa un rapido calcolo dei kit che abbiamo a disposizione e del materiale che possiamo donare all’ospedale, poi ripartiamo verso il luogo dell’incidente.

« Dovresti fare delle foto » mi dice Joel, « è importante ». In tutta onestà è l’ultima cosa che vorrei fare in questo momento, ma mi rendo conto che ha ragione.

Denunciare la follia che sta dietro a questo incidente è fondamentale, almeno per il mandato di MSF. Ogni giorno, centinaia di persone senza altra possibilità di spostarsi da e per Kinshasa, dove vendono i loro prodotti al mercato, accettano di viaggiare su camion già sovraccarichi, ben consapevoli del rischio che questo comporta. E il governo congolese non ha nessun interesse a fermare questa carneficina. Ogni volta che la polizia di Kenge ferma un camion sovraccarico, arriva qualcuno più alto in grado che lo fa ripartire, perché un camion più è carico e più guadagno fornisce.

Quando arriviamo, tiro fuori la macchina fotografica e mi guardo intorno; non credo che da noi nessuno gradirebbe se si facessero delle fotografie ai propri cari appena morti in un incidente terribile, ma mi rendo conto che la gente qui non dice nulla; non sembra nemmeno interessata, anzi, mi fanno spazio e mi indicano dove sono le vittime.

Le mani mi tremano violentemente; per riuscire a scattare mi rannicchio e poggio i gomiti sulle ginocchia. Ad ogni foto che scatto, l’immagine immortalata si imprime nella mia testa; il sangue, quelle posizioni innaturali, quegli occhi che guardano oltre, rimane tutto li, registrato nella mia testa. Mentre fotografo una fila di bambini senza vita mi dico che è tutto finto, che tra poco si alzeranno e torneranno a casa, magari anche un po’ scocciati di dover andare a piedi, ma contenti di essere vivi. Ovviamente non accade e quegli occhi rimangono spenti e fissi nel vuoto, o nell’immensità, chi può dirlo.

Tornati all’ospedale portiamo nuovamente i feriti all’interno; i nostri vestiti grondano sudore e sangue e la gente che si accalca intorno a noi rende tutto più difficile. Una donna sdraiata sul pavimento afferra i miei pantaloni e mi fa segno con la testa, come per dire “guarda la mia mano”; ma c’è poco da guardare…dove ci dovrebbe essere la sua mano c’è soltanto sangue e poltiglia. Cerco di dirle di stare calma, lei molla i miei pantaloni e mi allontano il più in fretta possibile.

I primi feriti, i più gravi, vengono trasportati nella sala operatoria, che è una semplice stanza con due letti di ferro. Si eseguono due interventi contemporaneamente, uno accanto all’altro e tutto intorno, sul pavimento, giacciono gli altri feriti che verranno operati successivamente. Sempre a terra, accanto ai lettini, ci sono piedi amputati in un tappeto di sangue. La sala operatoria è affollata, ci sono almeno 10 persone che cercano di arrangiarsi con il nulla di cui dispongono.

Sta calando velocemente la sera e l’ospedale, nonostante disponga di un generatore, non ha il carburante per azionarlo. Così rovisto nel budjet che ho l’incarico di custodire per la missione in Kasai e mando Michel a cercare il carburante.

Comunichiamo a Kinshasa il materiale di cui abbiamo bisogno e ci dicono che stanno già preparando il tutto e che 3 persone sono pronte a partire.

A questo punto quello che potevamo fare lo abbiamo fatto, per cui cerchiamo un hotel in cui passare la notte ed aspettare l’équipe in viaggio. Mentre scarico il mio kit personale, Michel mi guarda con aria preoccupata e mi chiede se sto bene; rispondo distrattamente di si e faccio per andarmene, ma lui mi si piazza davanti e ripete la domanda. Mi guarda; lo guardo; lui guarda le mie mani; le guardo anche io e mi rendo conto che sto ancora tremando. Gli ripeto che sto bene e che starò meglio quando mi sarò tolto i vestiti e l’odore del sangue se ne sarà andato dalle narici, poi gli sorrido cercando di cacciare le lacrime, lui mi da una pacca sulla spalla e mi lascia passare.

Una volta in camera mi spoglio e butto i vestiti fuori dalla stanza, poi mi mi getto una secchiata d’acqua gelida addosso e mi strofino energicamente. L’odore mi rimarrà nel naso e nella mente per molte ore ancora. Poi mi butto sul letto e, nel buio e nel silenzio, la diga si infrange e tutte le emozioni che ho cercato di reprimere durante le ultime ore mi crollano addosso. Vorrei piangere,  spaccare qualcosa, urlare, fare qualsiasi cosa che mi aiuti a scaricare la tensione; ma non faccio altro che stare sdraiato a guardare il vuoto, immaginando di poter gettare un rapido sguardo sull’oltre, come tutti quelle vittime hanno fatto oggi. Non so per quanto tempo sono rimasto li’; l’oltre non l’ho visto, ma alla fine, stremato, mi sono addormentato.

 

 

 

 

 

 

 

IMMAGINI RISERVATE AD UN PUBBLICO ADULTO

 

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10 thoughts on “Sangue, Carne, Ossa, Terra

  1. Che stavo facendo io in quel momento? e’ una cosa che mi chiedo spesso quando leggo (vedo) pezzi come il tuo. Analiticamente ricerco a ritroso le azioni della mia giornata, di quella mia giornata in particolare. Esorcizzo con la normalità della mia vita quello che impensabilmente accade in un altro luogo del mondo. Mi chiedo spiegazioni, componevo davvero il puzzle di qualcosa? Mi chiedo ancora, come si fa a non avvertirlo? Come fa a non arrivare niente dentro al cuore, al cervelletto sensitivo.. C’era un tempo dove lo si avvertiva davvero?

    Nessun uomo è un’isola

    Nessun uomo è un’isola,
    completo in se stesso;
    ogni uomo è un pezzo del continente,
    una parte del tutto.
    Se anche solo una zolla
    venisse lavata via dal mare,
    l’Europa ne sarebbe diminuita,
    come se le mancasse un promontorio,
    come se venisse a mancare
    una dimora di amici tuoi,
    o la tua stessa casa.
    La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
    perché io sono parte dell’umanità.
    E dunque non chiedere mai
    per chi suona la campana:
    suona per te.

    John Donne

    sono/siamo anestetizzato/i.

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  2. L’unico possibile antidoto al lasciarsi anestetizzare è quello di parlarne. Con la cronaca, con la letteratura (che a volte riesce più di ogni altra cosa a scalfire le coscienze) e anche con le foto. Grazie di aver avuto il coraggio di farle, dopo aver fatto tutto quello che potevi per i superstiti

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  3. Mio Dio, tutto questo è veramente terribile!!! Come si fa ad accettare che queste cose possano accadere ancora oggi?
    Non oso immaginare il tuo stato d’animo: è vero, sei un medico, dovresti essere abituato al sangue, alle situazioni d’emergenza, a vedere gente ridotta in fin di vita, ma sei pur sempre un uomo, hai un cuore, dei sentimenti e questo non è accettabile per nessuno, non è possibile che ci sia gente che viva ancora in questo modo e che in questo modo possa morire!!!
    Ti ammiro molto per quello che fai, perchè spendi la tua vita al servizio degli altri…
    Non ho altre parole, tutto questo mi ha davvero choccato…

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  4. La cosa peggiore è sapere che cose come queste….avvengono spesso….troppo spesso. Provo molta ammirazione per tutto quello che riesci a fare…….che è tantissimo, ci vuole davvero tanta forza e coraggio. Un caro saluto.

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  5. La tua esperienza che non è solo di un giorno ma che si ripete continuamente tra le varie forme di dolore, per scelta di vita, è un duro colpo alla mia serena coscienza di persona onesta, umana e tuttavia con i suoi piccoli privilegi da conservare. Ad interrogarmi sinceramente non so quanto e se sarei disposta a cedere qualcosa di cui dispongo, (non le briciole che avanzano e che mettono a posto la coscienza), per sanare le disgrazie altrui. Per quanto amareggiati e inorriditi , in fondo questo mondo fatto di graziati e disgraziati ci sta bene così com’è. Siamo persone perbene, non facciamo male a nessuno, siamo disposti a dare 2 euro all’ extracomunitario che incontriamo per strada, ma forse non di più.

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  6. Dovremmo vedere più spesso queste immagini, non per macabro sadismo, ma per scuotere le nostre coscienze bendate ed isolate da troppo tempo. Ammiro il tuo operato nel voler aiutare persone che non hanno voce, poichè deboli e sottomessi ad un sistema prevaricante. Il tuo coraggio ha un valore inestimabile, quanto la vita delle persone a cui presti soccorso e che tu possa avere ancora tanta forza nel continuare la tua opera risanatrice per tutti coloro che non hanno voce. Continua così.

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  7. Non ci sono parole adatte che possa trovare per commentare questa testimonianza. Semplicemente ringrazio te e tutti quelli che come te operano nei vari paesi del pianeta come volontari nella cura e nel sostegno di queste popolazioni.
    Grazie di condividere con tutti noi la cronaca del tuo operato.
    Un caro saluto
    Dona

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